Le bioplastiche compostabili in commercio non sottraggono in alcun modo, con la loro produzione, spazio all’agricoltura, né alimenti all’uomo e agli animali.
Al contrario, possono essere considerate un materiale innovativo, sicuro e con molteplici usi che, tra l'altro, può essere trattato negli impianti di compostaggio e di digestione anaerobica senza produrre alcun problema. Lo dice l’evidenza scientifica, ovviamente.
Lo conferma l’esperienza quotidiana degli addetti ai lavori. Ma lo riconosce al tempo stesso anche la normativa italiana che da tempo ne regolamenta e ne promuove l’impiego e il riciclo insieme ai rifiuti organici (meglio noto nelle case italiane come “umido”). In questo modo possono essere trasformate in compost, fertilizzante naturale utilizzabile in sostituzione dei concimi chimici, in grado di apportare sostanza nutritiva ai terreni, ripristinandone la fertilità. Un aspetto certamente non marginale, se si considera che l’Italia, assieme alla Spagna, è il Paese UE con il suolo più degradato, desertificato e a ulteriore rischio di desertificazione, come ricorda il World Atlas of Desertification realizzato dall'ufficio pubblicazioni dell'Unione europea.
La forte espansione del settore contribuisce ad accrescere la nostra familiarità con questi materiali, di cui sono ormai costituiti molti imballaggi, flessibili e rigidi. Dagli ormai celebri bioshopper, ai sacchetti per raccogliere l’umido, fino a piatti, stoviglie, posate, bicchieri o capsule per le bevande.
Eppure, nonostante tutto, molte false credenze imperversano, condizionando così, almeno in parte, la percezione generale del prodotto. Frutto di ignoranza o di vera e propria malafede poco importa. Diventa quindi fondamentale analizzare le questioni più dibattute fornendo gli strumenti necessari per poterle discutere. Abbiamo quindi scelto 10 affermazioni scorrette particolarmente frequenti. Vediamole nel dettaglio.
Nel 2021 la stima dei terreni dedicati alla produzione delle bioplastiche è dello 0,01% della superficie agricola mondiale (Bioplastics: facts and figures - European Bioplastic), ossia appena 700mila ettari. Per dare un ordine di grandezza e contestualizzare meglio il dato, il numero degli ettari dedicati a coltivazioni vegetali utilizzate per scopi industriali è enormemente più alto. Solo per la produzione di legname e altro, è stata destinata a livello mondiale un'area di foresta di 1.15 miliardi di ettari (Global Forest Resources Assessment 2020 - FAO). Ben 1640 volte di più.
Peraltro, l'industria delle bioplastiche è da sempre impegnata nello sviluppo di tecnologie che utilizzano rifiuti e scarti per la produzione tali materiali.
Spesso viene denunciato il fatto che le bioplastiche utilizzano preziose materie prime alimentari. Il caso più citato è quello dell’amido, materia prima utilizzata anche dal settore italiano delle bioplastiche. A questo proposito è necessario ricordare che l’amido viene usato da sempre a fini non alimentari: secondo “Starch Europe”, il 44% della produzione di amido nella UE e nel Regno Unito è destinata a scopi industriali. Di tale percentuale, gli utenti principali sono il settore della carta e dei prodotti ondulati (32%) fino al settore farmaceutico e della chimica (7%) e altri settori non food (5%). Le bioplastiche non vengono nemmeno citate come settore specifico di consumo di amido.
La caratteristica che contraddistingue e definisce le bioplastiche compostabili è il fine vita (la loro compostabilità, appunto) e non l’origine (la rinnovabilità). Vi sono comunque in commercio molte bioplastiche compostabili con elevato contenuto di materia prima rinnovabile. C'è da sperare che le normative europee spingano sempre più sulla rinnovabilità, in modo da ridurre la quota di bioplastiche di origine fossile. Purtroppo al momento non è così e ciò favorisce il mercato dei monomeri e dei polimeri fossili spesso di produzione non europea.
Detto questo, l’accusa appare alquanto singolare: con la stessa logica dovremmo attaccare anche le auto ibride perché vanno in parte a benzina (siamo in una fase di transizione). Tra l'altro è contraddittorio accusare da un lato le bioplastiche di competere con la produzione agricola quando usano materie prime rinnovabili e contestarle al tempo stesso se non usano abbastanza materie rinnovabili. In ogni caso, qualunque sia la natura dei componenti (petrolio o risorse agricole), le bioplastiche devono essere completamente compostabili per soddisfare i requisiti stringenti dello standard EN 13432.
Per quanto riguarda la presenza degli additivi chimici pericolosi: un prodotto per essere considerato compostabile deve essere certificato secondo la norma EN 13432, che prevede, tra i vari test, quello di ecotossicità. Ciò assicura che il prodotto (nella sua forma finale, ossia additivi inclusi) non rilascia sostanze tossiche o metalli pesanti in grado di compromettere la qualità del compost. Peraltro molte bioplastiche compostabili sono naturalmente resistenti ai liquidi e quindi non necessitano di trattamenti chimici per essere utilizzate nella produzione di articoli a contatto con alimenti (Polimerica: Bioplastiche col bollino senza PFAS).
Gli studi sull’LCA (Life Cycle Assessment, ovvero sull’intero ciclo di vita di un prodotto) dicono il contrario (ScienceDirect: Role of compostable tableware in food service and waste management. A life cycle assessment study): le bioplastiche compostabili e rinnovabili sono una opportunità per decarbonizzare l’economia e promuovere sistemi circolari.
Se gli impatti fossero maggiori, non si spiegherebbe allora come mai l’UE stia promuovendo la bioeconomia e i prodotti rinnovabili e compostabili (European Commission: Bioeconomy Strategy). E infatti, solo dal 2007 al 2020, l’Europa ha finanziato oltre 130 progetti di ricerca sulle plastiche biobased/biodegradabili per un totale di quasi un miliardo di euro.
Le bioplastiche compostabili nell’umido sono una semplice rispondenza al diritto europeo. Infatti sono state sviluppate per rispondere al concetto di “imballaggi recuperabili sotto forma di compost” previsto dalla direttiva 94/62/CE. Se questo è il loro scopo e destino a fine vita, non si vede allora in quale circuito dovrebbero essere conferite, se non appunto quello dell’umido domestico (FORSU) con produzione di compost.
La raccolta congiunta dell’umido con le bioplastiche compostabili è espressamente prevista dalle normative europee (EUR-Le: Direttiva (UE) 2018/851 del Parlamento europeo e del Consiglio) che prevedono la raccolta differenziata obbligatoria della FORSU entro il 31/12/2023, mentre l’Italia ha anticipato i tempi rendendola obbligatoria dal 1/1/2022. I benefici di tale modello (umido/bioplastiche compostabili) ce li ricorda l’ISPRA nel suo Rapporto Annuale sui Rifiuti Urbani: “La crescita della raccolta differenziata della frazione umida rappresenta senza dubbio un ulteriore stimolo all’utilizzo delle borse biodegradabili e compostabili, risultando idonee al riciclo dei rifiuti organici. Conseguentemente, l’eliminazione degli imballaggi in plastica non compostabili potrà concorrere al miglioramento della conduzione dei processi biologici e a un incremento della qualità del compost prodotto dagli impianti di trattamento biologico”.
Tra il 2016 e il 2017 nell’ambito dell’accordo di programma tra Assobioplastiche, CIC, CONAI, Corepla sono stati svolti test per verificare il comportamento delle bioplastiche compostabili, sia su scala di laboratorio (lab scale) sia in condizioni reali (full scale, ossia presso impianti di trattamento). Le bioplastiche compostabili (sia flessibili che rigide) si sono disintegrate e/o disgregate completamente sia nei test lab scale che in quelli full scale. I test sono stati fatti sia negli impianti di compostaggio sia in impianti integrati (digestione anaerobica e compostaggio).
Alle stesse conclusioni pervengono i monitoraggi eseguiti nel 2021 dal CIC (Consorzio Italiano Compostatori) per conto di Biorepack presso 30 impianti di riciclo organico.
Uno studio dell’Università di Wageningen ha mostrato che in un impianto di trattamento dei rifiuti organici olandese, i prodotti compostabili testati, certificati EN 13432, si sono biodegradati entro un massimo di 22 giorni. Anche in caso di digestione anaerobica con successiva fase di compostaggio, i test svolti nell’ambito dell’accordo di programma tra Assobioplastiche, CIC, CONAI, Corepla hanno dimostrato che la completa biodegradazione avviene in circa 55-63 giorni.
Ricordiamo che, come prevedono le BAT (Best available techniques), per avere un riciclo organico di qualità sono fondamentali le giuste tempistiche di trattamento (9-10 settimane per gli impianti di compostaggio), mentre cicli troppo brevi non permettono di degradare efficacemente le matrici compostabili, aumentano gli scarti dell’impianto e peggiorano la qualità del compost prodotto.
Il 48,1% della frazione organica è trattato negli impianti di compostaggio e il 46,8% negli impianti integrati (che hanno la fase di compostaggio dopo quella di digestione anaerobica). Appena il 5,1% in impianti di sola digestione anaerobica (dati ISPRA). Quindi il 94,9% dei processi di trattamento è idoneo a dare origine a compost e a biodegradare le bioplastiche compostabili in base ai dati e ai test (lab scale e full scale) effettuati in base all’accordo di programma tra Assobioplastiche, CIC, CONAI, Corepla e monitoraggi CIC/BIOREPACK 2021.
Peraltro vi sono articoli (ScienceDirect: Assessing the anaerobic degradability and the potential recovery of biomethane from different biodegradable bioplastics in a full-scale approach) che dimostrano come anche in condizioni anaerobiche (sia full scale che di laboratorio) le principali bioplastiche attualmente in commercio si degradano con un’ottima resa in biometano. Un recente studio di un team internazionale di ricercatori ha rilevato il ruolo strategico delle bioplastiche per il riciclo di qualità della frazione organica (“The bioplastics within organic municipal waste are a critical component for the future of waste management with particular reference to the quality of the final products, i.e., digestate and compost”)
In ogni caso il trattamento integrato è il più virtuoso perché “chiude il cerchio”. Esso infatti, non si ferma al solo recupero di energia ma realizza un vero e proprio riciclo organico con produzione di compost che, come noto, è opzione preferibile nella gerarchia dei trattamenti auspicati in Europa.
Il CIC (Consorzio Italiano Compostatori) afferma esattamente il contrario (Sacchetti biodegradabili, otto verità per una migliore raccolta dell’umido domestico - CIC): “L’impiantistica dedicata al riciclo dei rifiuti organici si conferma come una filiera qualificata ed efficiente nella gestione degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile: la quasi totalità degli impianti (con poche eccezioni, dovute a particolari sistemi di pretrattamento) accetta e gestisce senza alcun problema la presenza di manufatti in plastica compostabile nel flusso di organico conferito, sia nel caso di processi biologici di solo compostaggio che nei processi integrati digestione/compostaggio”.
La vera domanda da porsi dunque sarebbe sul layout di alcuni impianti che, a ben vedere, scartano non solo le bioplastiche compostabili, ma anche i rifiuti solidi biodegradabili normalmente presenti nell'organico. Tra questi, figurano legno, gusci di noci, gusci di uovo. Tali impianti decidono scientemente di selezionare solo alcune matrici da trattare, scartando tutto il resto (parti solide, incluse le bioplastiche compostabili). Oppure bisognerebbe interrogarsi su impianti che, a causa dell’elevatissima presenza di materiali non compostabili nella raccolta dell’umido o di tecniche di gestione o tempistiche di trattamento non rispondenti alle BAT (Best available techniques), hanno tassi di scarto altissimi e sono costretti a ricorrere a sistemi di pretrattamento che finiscono per impedire il riciclo anche delle matrici compostabili. Circa 15 punti percentuali di riciclo vengono attualmente persi a causa di tali operazioni di pre-pulizia e separazione dovute all’elevata presenza di materiali non compostabili ovvero a causa di tecniche di gestione e tempistiche di trattamento non rispondenti alle BAT.
BIOREPACK ha effettuato una serie di video interviste ai responsabili di cinque impianti di compostaggio sparsi sul territorio italiano. Basta ascoltare la diretta voce dei gestori di tali impianti per capire che è totalmente infondata l’affermazione secondo cui le bioplastiche - flessibili o soprattutto rigide - sarebbero un problema. Al contrario, quest’ultime si comportano come gli sfalci e le potature degli alberi e come tali vanno trattate.
Nessun attore della filiera delle bioplastiche compostabili in Italia ha mai promosso la sostituzione 1:1 della plastica monouso con la bioplastica monouso. Al contrario sono stati promossi esclusivamente quei prodotti pensati come specifiche soluzioni ai problemi cagionati dalla presenza nell’umido di materiali non compostabili (sacchetti, stoviglie, capsule, etc.). Se prendiamo per esempio il caso degli shopper – il settore di maggiore impiego dei prodotti compostabili – la normativa italiana incentrata sul binomio sacchetti riutilizzabili/sacchetti compostabili ha garantito una riduzione del quantitativo complessivo di shopper in circolazione del 58% tra il 2010 e il 2021 (La filiera dei polimeri compostabili - Assobioplastiche).
Un analogo effetto di riduzione si sta verificando anche rispetto ai prodotti monouso oggetto della Direttiva SUP - in particolare piatti e bicchieri, che hanno visto una riduzione dei volumi del 55% tra il 2016 e il 2021.
Per quanto riguarda poi il cosiddetto “littering”, ossia l’abbandono di rifiuti nell’ambiente, nessun prodotto deve essere smaltito in modo incontrollato nell’ambiente. Tutti i prodotti di qualsiasi materiale devono essere raccolti e riciclati. La carta deve essere raccolta con la carta, le lattine con l’alluminio, le bottiglie di vetro col vetro, etc. Le bioplastiche compostabili, certificate EN 13432, con le apposite le istruzioni di conferimento, sono progettate per essere raccolte assieme all’umido domestico e compostate negli impianti di riciclo organico, non per essere smaltite in modo incontrollato nell’ambiente.
Questo vale per tutti i materiali biodegradabili. Ad esempio, non risulta che la biodegradabilità della carta (concetto molto noto ai consumatori) sia un elemento che ne favorisce la dispersione incontrollata. Né risulta che una buccia di banana, o di qualsiasi altro frutto, si butti per terra in quanto biodegradabile. Al contrario, un comportamento di tal genere viene immediatamente stigmatizzato dai cittadini. Altra cosa è testare la biodegradazione marina per oggetti utilizzati per la pesca, come le retine per la miticoltura. In questo settore specifico l’innovazione nel settore dei materiali plastici intrinsecamente biodegradabili ha fatto passi da gigante.
Spesso viene citato l’articolo di Zimmermann “Are bioplastics and plant-based materials safer than conventional plastics? In vitro toxicity and chemical composition”1 per sostenere che le bioplastiche conterrebbero additivi tossici e non sarebbero quindi più sicure delle plastiche.
È bene sgomberare il campo da equivoci ingenerati da articoli con titoli suggestivi e che vengono purtroppo discussi e utilizzati in campo non scientifico. Non esiste una classifica in termini di sicurezza dei materiali e le bioplastiche non hanno mai rivendicato una maggior sicurezza rispetto ad altri materiali. Un materiale o è sicuro (se rispetta i requisiti di legge, come le bioplastiche) o non lo è.
In particolare, tutti i materiali (plastica, carta, alluminio etc.) e nello specifico tutte le plastiche a contatto con alimenti (FCM – food contact materials), che siano compostabili o piuttosto plastiche tradizionali, devono rispondere a severi requisiti imposti dalla normativa europea2. Questa prevede sia un elenco di sostanze “sicure” il cui uso è consentito nella fabbricazione di FCM di plastica o bioplastica, sia specifici limiti di migrazione (quantità massima di sostanze che possono migrare negli alimenti). Definire tossico un prodotto (in plastica o bioplastica) che rispetti la normativa vigente, peraltro sulla base di un metodo di conduzione dei test di tossicità non validato e diverso da quello ufficiale, significa gettare discredito non solo sulla plastica e la bioplastica, ma anche sugli organi tecnico-scientifici competenti ossia l’EFSA (l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) e l’ECHA (l'Agenzia europea delle sostanze chimiche). Un retropensiero complottista che non merita accoglimento e che dimentica l’importante funzione delle plastiche e delle bioplastiche a contatto con gli alimenti nel salvaguardarne le caratteristiche organolettiche e i requisiti di igiene e sicurezza alimentare. Peraltro come detto lo studio muove da una domanda non pertinente (se le bioplastiche siano o meno più sicure delle plastiche) perché le bioplastiche non hanno mai rivendicato di differenziarsi dalle plastiche per una maggiore o minore sicurezza in campo alimentare (sono entrambe sicure rispettando i requisiti di legge), ma solo per le caratteristiche di biodegradabilità e compostabilità a fine vita.
In breve, tutti i materiali dichiarati idonei per il contatto con gli alimenti e che soddisfino i relativi requisiti di legge sono sicuri.
1 Zimmermann et al. (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0160412020320213)
2 Regolamento UE n. 1935/2004 e Regolamento UE n. 10/2011
Questo aspetto è specificamente affrontato dagli standard vigenti (citati infra) che prevedono non a caso puntuali test ecotossicologici in modo da escludere che ciò che residua dal processo di biodegradazione possa danneggiare le matrici ambientali coinvolte. La certificazione è quindi un presidio di sicurezza e i materiali che ottengono la certificazione ai sensi di tali standard non presentano queste problematiche.
In particolare, gli standard sulla compostabilità degli imballaggi e delle plastiche (ad es. EN 13432, ISO 18606, ISO 17088), nonché quelli che riguardano i teli di pacciamatura biodegradabili (EN 17033, ISO 23517), prevedono test ecotossicologici da effettuarsi sul mezzo (compost o suolo) dove il materiale in studio è stato fatto biodegradare. Il materiale in studio è aggiunto in grande eccesso rispetto alla normale concentrazione di uso e ne è indotta la biodegradazione. Se durante la biodegradazione il materiale rilascia composti tossici persistenti, questi si accumulano nel mezzo e la prova fallisce. Le prove fatte alla fine del processo di biodegradazione sono dunque atte a evidenziare eventuali effetti causati da un accumulo di sostanze persistenti ad effetto tossico e in tal caso il materiale testato non supera i test e quindi non può essere certificato.
In breve, un materiale o supera i test ecotossicologici (se rispetta gli standard vigenti, come le bioplastiche) e allora viene certificato o non lo si supera e solo in tal caso si pongono i problemi sugli intermedi tossici generati durante il processo di biodegradazione.
Per avere un compost maturo (ossia stabile) che non abbia effetti negativi sulle piante e sul suolo, 21 giorni sono un tempo troppo breve, ce ne vogliono tra i 45-90 giorni3. Quando si parla di 21 giorni ci si riferisce alla prima fase del processo di compostaggio dove il compost viene trasferito dai settori iniziali dell’impianto (dove avviene la prima fase bio-ossidativa termofilica) in zone di stoccaggio e di maturazione. Dopo 21 giorni quindi il processo di compostaggio non è completo ed infatti se si effettua una vagliatura dopo appena 21 giorni, diversi rifiuti più voluminosi possono non aver completato la disintegrazione. Parliamo non solo di bioplastiche compostabili, ma anche di matrici pacificamente biodegradabili come pezzi di legno, rami, bucce ecc. È evidente che questo non significa che i prodotti non siano biodegradabili in compostaggio, ma che il processo di compostaggio dopo 21 giorni non è terminato ed è ancora in corso.
In breve, quando si dice che le bioplastiche non biodegradano in 21 giorni (prima fase) si omette di dire che il processo di compostaggio è fatto di due fasi che complessivamente durano 45-90 giorni e che dopo 21 giorni si possono trovare non completamente biodegradati anche pezzi di legno, rami, bucce ecc. proprio perché il processo di compostaggio non è ancora concluso.
3 BAT (Best available techniques) v. D.M. 29/01/2007, pubblicato in G.U. il 07/06/2007
Si tratta di affermazioni ricorrenti, ma manifestamente non supportate da dati/studi. Al contrario, i dati italiani mostrano esattamente l’opposto, ossia che il tasso di presenza della bioplastica nella plastica è inferiore all’1%4 (paragonabile, anzi inferiore, a quello dei metalli nella plastica, etc.) grazie anche alle attività di Biorepack.
Peraltro, occorre ricordare che le plastiche sono una grande famiglia di materiali, composta da diversi polimeri (polietilene - PE, polietilenetereftalato - PET, etc.), ognuno con caratteristiche diverse e che per essere riciclati devono essere selezionati e separati tra di loro, in modo da creare flussi di polimeri omogenei che solo a quel punto possono essere avviati a riciclo. Per cui a ben vedere, se di cross contamination si vuol parlare, vi è cross contamination anche tra gli stessi polimeri di plastica tradizionale (PE e PET etc.) e non solo tra biopolimeri e polimeri tradizionali, ma questo non ne ostacola il riciclo e fermo restando altresì che anche i biopolimeri sono selezionabili con i lettori ottici e riciclabili. La contaminazione incrociata dei materiali andrebbe comunque indagata a tutto tondo (ad es. la presenza di materiali non compostabili nell’umido penalizza il riciclo delle bioplastiche facendogli perdere oltre 14 punti percentuali di riciclo5) e non usata in modo strumentale solo contro le bioplastiche.
In breve, la cross contamination altro non è se non uno dei tanti slogan che spesso si sentono, usato in modo strumentale e ovviamente senza alcun tipo di dati a supporto.
4 Nell'ottobre 2017, uno studio pubblicato congiuntamente da Corepla, Consorzio Italiano Raccolta, Riciclo e Recupero degli Imballaggi in Plastica, Consorzio Italiano Compostatori (CIC) e Assobioplastiche, Associazione Italiana Bioplastica e Materiali Biodegradabili e Compostabili, analizzando la qualità dei materiali riciclati in plastica proveniente da 19 impianti di selezione della raccolta differenziata e riciclaggio in tutto il paese, ha fatto emergere come la plastica compostabile rappresentava solo lo 0,85% della plastica in ingresso e oggi tale valore è ulteriormente sceso a seguito della nascita di Biorepack e delle azioni portate avanti dal consorzio.
5 Oltre 10.000 ton. di bioplastiche compostabili vengono di fatto sottratte al riciclo a causa della presenza di ingenti quantitativi di materiali non compostabili. Tale quantità vale circa 14 punti percentuali di riciclo persi dalle bioplastiche che senza tale grave perdita raggiungerebbero e supererebbero già oggi il 65% di riciclo, contribuendo così in maniera fattiva agli obiettivi nazionali.
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